Diario di bordo #1

Giorno 1

Arrivare a Campo de’ Fiori da Centocelle con i mezzi (visto che il motorino ha deciso di morirmi sotto al culo, tanto per rendere più croccante l’evento) è un proposito delirante già di suo. Aggravate la situazione considerando la bollente condizione climatica, una camminata da Spagna a destinazione quando il sole si dà il suo bel da fare e la realtà dei fatti che se siete nati oltre Porta Maggiore per voi il centro è un luogo mistico dai percorsi imperscrutabili. Vien da sé che giriamo a cazzo, sperando nella fortuna. Arriviamo al Cinema Farnese per assistere alla proiezione del documentario su Doisneau. Potrebbe interessare a qualcuno, abbiamo pensato, e non essendo giornalisti avremmo potuto farlo a modo nostro, facendone uscire una cosa leggera e carina. Dio ci secchi alla prossima idea geniale.

Dando le spalle al Maestro Bruno veniamo a contatto con gli autoctoni: gente che gira in camicia bianca, jeans e ciabatte e riassume il Mythos del contesto. Insomma, i tortellini. Attraversato l’ingresso facciamo i pochi passi necessari per arrivare alla cassa e chiedere informazioni (da buona prassi siamo in ritardo e non abbiamo idea di come funzionino le cose qui, magari neanche ci fanno entrare) giusto per sentirci dire che la proiezione è saltata. E mentre la borghesia del domani ci chioccia intorno per la scarsa organizzazione, noi ci approcciamo alle scorte idriche con la stessa foga che assale i preti negli spogliatoi dell’oratorio. Al posto del documentario c’è una non meglio precisata proiezione a tema trafficanti. Zelda sbotta di sottecchi: “se parla di narcos rosico” e come darle torto?

Ci sediamo in platea perché ormai siamo qui e tanto vale dare un’occhiata. Mentre io e Zelda iniziamo a fare effetto figurine Panini sulle poltroncine del cinema, la sala inizia ad animarsi dello sciavattare del pubblico. Uno sciavattare, siamo coscienti, prodotto con ciabatte che valgono più o meno quanto i nostri cellulari. L’una.

Intanto che il film inizia veniamo forzosamente circondati dai tortellini, che prendono a borbottare, sussurrare e ogni tanto scoppiano in espressioni di moderata sorpresa nel trovarsi lì l’un l’altro. Insomma, fanno il brodo. C’è la prova microfono, si fanno i ringraziamenti al regista e al cast in un misto di italiano e inglese e i tortellini si danno un tono. Zelda, dal canto suo, si dimostra particolarmente ispirata e quanto meno si sdrammatizza con qualche battuta. La voce scroscia come un fiume in piena di cazzate che si getta a capofitto oltre la rupe dei dodici comandamenti. La regista è Anya Camilleri, nome che sembra essere noto ai presenti. Mi sento a disagio e stupido. Se vuoi essere acculturato, infatti, devi stare tra i tortellini, comportanti come un tortellino, pensare come un tortellino e conoscere gli altri tortellini. Noi siamo vaccinati al massimo ai wanna-be del Pigneto. La situazione è critica e la paranoia base si mette ad indicare i loro sguardi infastiditi come una scimmia assatanata nascosta nell’armadio. Parte il cortometraggio: una prostituta dell’est scappa dai papponi per le vie di Trastevere, si imbuca ad una festa per fottere del cibo all’aperitivo, viene notata da un aspirante medico che la rincorre per strada in un goffo tentativo di approccio. Lei gli mostra le ferite che ha sul corpo, lui sbianca e gli torna in mente che non è ancora laureato. Parlando arrivano davanti l’isola Tiberina, lei chiede soldi e lui indica un punto a caso per dirle che abita lì vicino e va a chiederli al papi. Il laureando mente e torna con le guardie (che sicuro avrebbero risolto la situazione coadiuvati da Don Matteo) e lei scappa sul lungo Tevere. Schermata nera, statistiche su quanto faccia schifo il mondo, donate per combattere la povertà, applausi. Fanculo voi, le donazioni e bambini del Darfur. Scegli un tema e buttaci i soldi che le contraddizioni del capitalismo le risolve Giovanni Rana. Avrei preferito parlasse di narcos. Non siamo stati zitti per più di dieci secondi, il corto ci toglieva le stronzate di bocca. Ovviamente, durante i ringraziamenti, abbiamo capito che tutti quelli che ci siedono accanto, davanti e retro facevano parte del cast o della trouppe. Compreso un tipo che agonizzava in ultima fila come colto da costanti spasmi di presunto genio.

Giorno 2

Oltre il viaggio, oggi passato senza eccessiva arsura, tutto è andato come da piano. Siamo arrivati tardi, perdendoci l’inizio, ma ci hanno fatti entrare. Il documentario (Robert Doisneau – La lente delle meraviglie) scorre bene e non ha quel taglio americano che fa ampiamente cagare. Dite che è smart ma è solo spettacolo e zero contenuti. Al contrario Clémentine Deroudille, nipote del Nostro, è europea come non si vedeva da tempo. Mantiene infatti, in quanto voce fuori campo, una forte personalità che permette di attraversare le vicende del fotografo non tramite ricostruzioni ridicole ma sulla base di una narrazione che si fa, alle volte, interna alle vicende stesse. Di sfondo immagini d’epoca, video e scatti del Nostro. Sarebbe impossibile dire che non ci sono momenti di stravaccamento e noia; dopotutto cosa, ad oggi, riesce a tenere l’attenzione vispa ed esclusiva per due ore ad un ventenne? Figuriamoci un documentario che, se da una parte si salva dall’americanata becera, pecca spesso di troppa “francesità”. Almeno non si è dovuta accattivare il pubblico con ritmi serrati e continue ripetizioni, scegliendo al contrario lo spazio familiare come momento di raccolta per lo spettatore; ed è con questo, che è il momento più soggettivo per la regista, che crolla la struttura contemporanea della neutralità. Questo è il punto che ho più apprezzato e che è riuscito a farmi superare illeso le parti noiose. È nel rifiuto della neutralità che emerge l’uomo del quale parliamo, assieme alla voce fuoricampo dell’autrice, in tutta la sua verità. Il documentario riesce a permearsi di Storia, di farla vivere assieme al racconto senza bisogno di parole, proprio grazie all’esprimersi della soggettività che la vive. L’essere assunto alla Renault diviene modo per parlare delle lotte operaie dei primi decenni del secolo scorso, pure senza spenderci troppe parole. Stesso discorso per l’occupazione tedesca di Parigi che, assieme al suo impiego come fotografo di fabbrica, ricostruisce lo spirito di quello che sarà il Doisneau artista.

Per maggiori informazioni sulla sua vita vi invito a guardare il documentario che, sicuramente, saprà dirvi più di quanto io possa arrabbattare in giro o nella memoria.

E ora voglio tirare le somme di una due giorni all’insegna dell’attento studio antropologico dei tortellini presenti. Sono tutto quello che c’è di sbagliato, oggi, nella cultura. Passi l’essere snob alto borghesi dal vestiario concordato collettivamente come omaggio a qualche divinità sadica. Ci posso stare: è il loro marchio e come tutti noi gli tocca stare al passo con i pregiudizi. Quello che mi ha profondamente disturbato è stato l’invito all’azione, dichiaratamente inter nos, per via di donazioni. Sarà che io sono cresciuto nei favolosi anni ’90 (dove se non avevi un fratellastro africano adottato a distanza passavi per poveraccio) ma sono convinto che le donazioni in denaro siano uno sciacquone morale. Questo sistema fa cose brutte, tu sei fortunato, lancia monete come molliche al povero che piange dietro lo schermo. Sfamare le bestie dello zoo mediatico ti fa sentire meglio, ti fa sentire buono. È il gusto di avere un potere, se pur minimo, da poter cedere a chi vi è sottoposto. Vederlo fare a una sala piena di tortellini commossi è stata la migliore pubblicità per l’operazione rieducativa di Stalin.

E io volevo stare con la CNT.

Dionisio, Zelda Zarathustra e Iesu nella parte dell’angioletto tossico sulla spalla

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